Angelo Stano | Romics

Angelo Stano

Romics d’Oro della V edizione

“Indiscutibilmente, sono lento”. Sono parole sue, di Angelo Stano. In questa laconica ammissione c’è già una dichiarazione di stile: Stano non è e non sarà mai un autore inflazionato, perché procede in modo composto e profondo. Ha bisogno di tempo, e la lentezza è nel suo caso sinonimo di immersione. Si è immerso molto giovane nello stile dei suoi preferiti (Pratt prima degli altri), si è immerso nel fumetto industriale di massa degli anni ’70, si è immerso nell’avventura di Dylan Dog, diventando l’addetto al portale della testata, cioè l’autore delle copertine. Si è immerso anche nell’apprendimento e nella personalizzazione dei software per disegnare e colorare, recuperando un interessante artigianato tecnologico. L’idea dell’artista-palombaro è rafforzata dalla tenuta grafica delle storie di Dylan Dog da lui disegnate: sono poche, ma indelebili. La creatività narrativa di Sclavi riceve da quelle tavole un potente valore aggiunto: Stano chiama in causa l’espressionismo, e a ragione. Lui riesce a rielaborare la storia fissando nei tratti grigi delle cose un intero spettro di emozioni, come se gli riuscisse di contenere nelle relazioni tra bianco e nero l’intero mondo visibile, a sua volta ripensato in un sogno. Il reticolo delle storie viene dall’interno dei corpi e delle menti: ecco perché l’artista che fa da riferimento esistenziale a Stano è Egon Schiele. Ecco perché ogni tavola di Dylan Dog sembra un’attualizzazione dei dipinti di Schiele: perché il personaggio evita la necessaria adesione a comportamenti prevedibili – pur essenziali nei generi di massa – e diviene icona pensante sulla (della) contemporaneità. Il Dylan di Stano parla poco, ma pensa moltissimo attraverso i balloon che nascono sopra la testa da piccoli cerchi bianchi. Dice che l’azione va rallentata, perché essa è figlia di un mondo scuro e complicato dove l’enigma e il mistero sono l’atmosfera abituale, e dove l’eroe è tale perché sa che occorre saper ritrovare di continuo la strada dentro un labirinto chiamato – come voleva Gadda – “la cognizione del dolore”. Anche se l’eroe porta la camicia fuori dai pantaloni e calza un paio di intramontabili Clark’s.